Un eterno rincorrersi di addii

– Ti avrei dato tutto – le disse – ma non si può aiutare chi non vuol essere aiutato, no!?
Lo sguardo di lui le penetrò la carne, dritto alle ossa, e poi più in fondo, fino al cuore. Lì, a formare altre piccole crepe accanto a quelle che il tempo aveva già pensato a cicatrizzare.
Uno sguardo, il suo, che lei non poteva sostenere. No, non era vero: avrebbe anche potuto sostenerlo. Solo, non voleva.
Così raccolse le sue cose e, con il coraggio che le restava e la dignità che non aveva mai perso, ricacciò indietro le lacrime.
Era un addio. Lo sapeva lei. E lo sapeva lui.

Percorse in fretta la rampa di scale che la separava dall’ingresso del palazzo. Fuori, il taxi l’attendeva già.
Vecchie canzoni italiane giravano alla radio durante il tragitto verso l’aeroporto: aveva acquistato il biglietto la sera prima, quando aveva capito che la loro storia era arrivata al capolinea.
Cioè, non lo aveva capito quella sera. A essere sincera con se stessa, erano almeno due mesi che ne aveva preso coscienza: era come se entrambi si stessero trascinando a fatica, ogni giorno con meno forze, tra le stanze della loro casa. Quelle stesse stanze che li avevano visti insieme. Quella cucina in cui si erano divertiti a preparare la loro prima cena. Quella sala dove, accoccolati sul divano, avevano iniziato e finito nel giro di ventiquattr’ore l’ultima arrivata su Netflix. Quella camera da letto dove avevano fatto l’amore così tante volte, di quell’amore che ti graffia l’anima e ti lascia stanche le membra, e il respiro corto, ma che ne vuoi ancora, e ancora, e ancora.
La loro casa. Anche se, quella casa, lei non l’aveva mai sentita sua davvero.
Sì, certo, lui le aveva concesso i suoi spazi, le aveva fatto posto nei cassetti, aveva lo spazzolino in bagno e degli oggetti personali sparsi in giro.
Ma “casa” è di più. È un posto in cui ti senti scaldare il cuore quando apri la porta.
E, a lei, il cuore non si scaldava da tempo.

Raggiunse l’aeroporto, sbrigò le ultime formalità prima dell’imbarco, con una mano trascinava il trolley verso il gate, con l’altra teneva stretti i documenti di viaggio.
Salutò hostess e steward, si accomodò al suo posto, allacciò la cintura e chiuse gli occhi.
La sua vita era così. Era sempre stata così. Un eterno rincorrersi di addii.

A iniziare dal giorno in cui aveva dovuto dire addio alla sua bambola preferita: era tornata a casa da scuola ed era corsa in camera pronta a giocare con lei, ma lei non era al suo posto. Nessuno dei suoi giochi era al suo posto. Suo padre le aveva detto che era arrivato il momento di crescere, che i giocattoli erano per quelli che non vogliono combinare nulla nella vita e che lei, invece, si sarebbe dovuta impegnare perché niente le sarebbe stato regalato. Aveva dieci anni e quello fu il momento in cui iniziò a odiarlo, suo padre. Perché le aveva tolto i giochi, perché l’aveva trasformata in pochi minuti in una piccola giovane donna. Ma, soprattutto, perché aveva ragione: niente le sarebbe mai stato regalato.

E lo capì meglio quando, qualche anno dopo, si era trovata a stringere le mani di sua madre mentre vedeva la vita spegnersi nei suoi occhi, poco a poco. Lei le diceva di non piangere, che tutto sarebbe andato bene. Lei, la donna che l’aveva portata in grembo per nove mesi, quella donna che le aveva rimboccato le coperte la sera prima di dormire, la rassicurava, mentre la malattia se la stava portando via. Fu allora che imparò a ingoiare le lacrime: per sua madre, e per se stessa. Perché se impari a gestire le tue emozioni, esse non potranno più sorprenderti all’improvviso e, alla fine, resterai tu padrona delle tue reazioni.

Per questo lo lasciò andare. Stefano. Quando le disse che voleva sposarla, perché l’amava, perché non poteva immaginarsi la sua vita senza di lei. Lei, che non voleva dipendere dalle proprie emozioni, figurarsi dalla vita di un altro essere umano imperfetto. E figurarsi se avrebbe potuto accettare che quell’essere umano imperfetto dipendesse da lei. Così gli disse addio, e lo osservò qualche anno dopo, dalle ultime file di una chiesa gremita, unirsi in matrimonio con una donna che non era lei. Dopo tutto, era riuscito a fare qualcosa di più che immaginarsela una vita in cui lei non c’era più!

Ogni volta aveva fatto le valigie, aveva prenotato un volo e aveva ricominciato da un’altra parte. Ricostruendosi, pezzo per pezzo.
Lei, gli addii, li affrontava così. Perché a spaventarla non erano i cambiamenti. Quelli facevano parte del gioco. Ciò che la spaventava era l’idea di restare impantanata in un circolo di recriminazioni, rimpianti, lacrime. E dolore. Soprattutto dolore. Un circolo in cui ogni parte un po’ nutre e un po’ affama l’altra, finché ti ritrovi consumato e non sai più come fare a venirne fuori.

E anche questa volta, anche questa volta aveva inscatolato la sua vita e se l’era portata via. Perché, anche questa volta, come con Stefano, aveva sentito che l’unico modo di sapersi completa che conosceva era restare da sola. Non perché non provasse affetto per lui, o non lo avesse provato per Stefano. Anzi, a modo suo li aveva amati entrambi. Ma l’amore, da solo, non basta. Non basta mai. A far funzionare un rapporto erano cose in cui lei non era brava: non era brava a scendere a compromessi, non era brava a fidarsi degli altri, non era brava a immaginarsi un futuro in due.

L’aereo atterrò. Era una bella giornata. Inforcò gli occhiali da sole. Scese la scaletta e si fermò un attimo. Respirò profondamente.

“Anche adesso, come allora, nessuno sapeva dove lei si trovasse. Anche questa volta non sarebbe arrivato nessuno. Ma lei non lo stava più aspettando. Sorrise verso il cielo terso. Con un po’ di fiducia, sapeva alzarsi da sola.”*

*“Un eterno rincorrersi di addii” è stato scritto
per partecipare al concorso “Dalla fine al principio. Le ultime parole”.
Come da indicazioni di partecipazione,
le ultime tre righe sono tratte dal libro
“La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano.

@rlphotoandmore

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Raffaella Lazzarato
Made in Taranto. Based in Milano. Sempre alla ricerca di qualcosa che mi faccia battere il cuore più forte del minuto prima. Mi accontento raramente. Scrivo per dar voce alla voce che trattengo. Scatto per imprimere nella memoria emozioni, scorci, sguardi e pensieri.