Rinchiusa

Quella non era la mia voce. Era la voce di Maria.
Io mi chiamo Ana.
Sono la maggiore.
È la scusa che ho inventato per poter raccontare queste storie.”
*

Mi piace raccontare certe storie. Non lo so perché mi piaccia, ma, in fondo, non tutto deve sempre avere una spiegazione. È quello che mi sono sempre detta. Ed è quello che ho sempre detto a chi sgranava gli occhi ogni volta che ne inventavo una.

Guardo il mare attraverso il vetro, di fronte a me. Oggi non si muove. Riflette sulla sua superficie il colore del cielo. O almeno è quello che dicono. Che l’acqua non ha colore. Ma solo perché le persone vedono senza guardare, come sentono le mie storie senza ascoltarle. Io lo posso vedere il colore dell’acqua. E non è quello del cielo.
Prendi il colore di questo mare, per esempio. Ha una sua propria sfumatura, fili d’oro si intrecciano tra loro su una tela di un azzurro candido. Fili d’oro come i capelli delle ninfe che nuotano rincorrendosi e sfidandosi a chi arriverà per prima a benedire il prossimo sposo che si immerge nell’acqua. Ridono, e cantano. Le posso sentire. Si divertono. E danno all’acqua del mare il loro colore.
Non come l’acqua che scorre dai rubinetti dei bagni del nostro piano. Lì l’acqua è grigia. Posso sentire l’esultanza dei microbi ogni volta che la faccio scorrere, finalmente liberi di circolare e non rinchiusi in quei tubi.

Rinchiusi.
Rinchiusa.

Dicono che è per il mio bene. Che ho bisogno di ricevere cure. Che poi starò meglio. Perché quello che è successo mi ha fatto uscire di testa. Ma io non sono pazza. So quello che mi è successo. E come posso dimenticarlo se alle cinque in punto di ogni singolo giorno mi vengono a prendere per “parlare di quello che è successo”?

Parlare di quello che è successo quando ancora mi chiamavo Ana e vivevo in una casa fatiscente nei pressi di una ferrovia in disuso. Ci vivevo da sola. Da sola con mio padre. Mio padre. L’uomo che mi aveva dato la vita. L’uomo che me l’aveva tolta.
Mia madre era morta pochi giorni dopo il parto. Ho vissuto per quindici anni muovendomi in silenzio tra le stanze vuote della nostra casa. Il giorno del mio quindicesimo compleanno, lui si accorse di me. Diceva che ero uguale alla mamma, che gliela ricordavo, che dovevo fare la brava, che tutto sarebbe andato bene.

Fu allora che divenni Maria e Ana insieme.
Ana quando ero con lui, Maria quando ero da sola con me.

E fu Maria che suggerì ad Ana di reagire. Così una sera, dopo che si fu addormentato, sgattaiolai fuori dal suo letto, in punta di piedi sulle scale fino alla cucina. Presi la sedia gialla su cui tutte le mattine mi sedevo per fare colazione. Ci salii su per arrivare sopra la credenza dove la teneva. La pistola. Una Smith & Wesson del ’60. Chiusa in una scatola ingiallita. La afferrai. Tornai su. Dormiva ancora. Mi avvicinai tanto da sentire il rumore del suo respiro. Puntai dritto in mezzo agli occhi. Sapevo come fare. Era stato lui a insegnarmi. I suoi occhi si aprirono. Le mie dita si strinsero sul grilletto.
Mi trovarono i vicini la mattina dopo accovacciata sull’uscio di casa.
Era il giorno del mio diciottesimo compleanno.

–  Ana, sono le cinque – è la voce dell’infermiera. Quella sempre carina, con un filo di trucco e le unghie laccate di rosso. Si avvicina, mi prende sottobraccio e mi fa alzare.
Lascio che mi accompagni nella sala del “parlare di quello che è successo”. Prima che esca, la chiamo.
–  Maria – sussurro.
–  Non capisco Ana – sgrana gli occhi.
–  Maria. Mi chiamo Maria – mormoro.

*“Rinchiusa” nasce come esercizio di scrittura.
Le prime quattro righe sono tratte dal primo capitolo del libro
“Noi che ci vogliamo così bene” di Marcela Serrano
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@rlphotoandmore

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Raffaella Lazzarato
Made in Taranto. Based in Milano. Sempre alla ricerca di qualcosa che mi faccia battere il cuore più forte del minuto prima. Mi accontento raramente. Scrivo per dar voce alla voce che trattengo. Scatto per imprimere nella memoria emozioni, scorci, sguardi e pensieri.