Alma

La neve.
Lenta cade a fiocchi adagiandosi soffice sulle strade. I tetti delle case si colorano di un bianco candore, piano.
Osservo quel fluttuare di elementi con gli occhi di un bambino che si affaccia per la prima volta al mondo e ne rimango magicamente affascinata. Mi sfiora dolcemente il volto, la bocca, le mani. Il suo tocco come la carezza di un giovane amante delicato.
E torna a far visita alla mia mente il ricordo di un amore ormai lontano eppure estremamente vicino al mio cuore, tanto vicino da poterne ancora udire i sospiri che allargano il petto in un sussulto di effimera gioia.
Era ieri, amore, quando il tuo sguardo indugiò sulle mie membra e si fermò ad osservarne le movenze e decise di scegliere me?
Era ieri quando un fato dispettoso mosse le sue fila e intrecciò la mia sorte alla tua in un incrocio di corpi e anime?
Era ieri, amore? O, invece, dieci, cento, mille anni fa?
E rivedo dinanzi a me il tuo volto perfetto, la tua bocca sottile, i tuoi occhi profondi in cui solevo perder me stessa; e risento sul mio corpo il tocco delle tue dita gentili, la carezza dei tuoi baci affettuosi, la forza del tuo amore impetuoso che mi rendeva tua per sempre.
Quanto a lungo ti ho cercato nelle mie notti insonni, quanto ho sperato di ricongiungere la mia carne alla tua, quanto ho implorato quel fato ingrato che ci fece uno perché provasse pietà di fronte al mio dolore e ascoltasse la mia preghiera.
Io, ingenua fanciulla a cui insegnasti cosa significa esser donna, ti amai perché sapevo che non avrei potuto fare altrimenti. Io, che ti avevo atteso ogni ora di ogni singolo giorno della mia esistenza, avevo finalmente cessato il mio lungo peregrinare: e divenni tua perché, in fondo, lo ero sempre stata, ancor prima che i nostri occhi si aprissero alla vita, ancor prima che le nostre strade si sfiorassero.
Ero stata tua nell’oscurità dell’universo non ancora creato, quando milioni di stelle brillavano ognuna della luce dell’altra. Ero stata tua nel calore rassicurante del grembo materno, quando la vita appena generata si congiungeva al destino per lei scritto. Ero stata tua quando, chiudendo gli occhi, ti abbandonavi al rigenerante torpore della notte e venivi a spiare i miei sogni con la tua silenziosa presenza.
Tu, uomo bambino che si rifugiava tra le mie braccia per sfuggire alle crudeltà della vita, mi amasti perché ero per te l’aria, ero per te l’acqua, la terra e il fuoco: indispensabile alla tua esistenza come ognuno di questi quattro elementi. Tu, che giacesti accanto a me ogni notte con la stessa profonda passione, fosti mio, interamente e completamente mio.
Tu, creatura perfetta strappata per sempre al mio abbraccio, giaci ora congiunto alla Terra, parte nuovamente di essa come nella notte dei tempi.
Ritorno allora con la mente laddove i nostri destini si incrociarono per la prima volta, laddove capimmo quanto le nostre esistenze fossero state vuote fino a quell’istante senza la presenza dell’altro, laddove il mio cuore cominciò a battere all’unisono con il tuo.
Se solo fosse possibile tornare indietro a quel momento e ricominciare tutto di nuovo, e poi ancora, e ancora, sicché il giorno del distacco non giunga mai a raffreddare le nostre notti.
Se per un instante, per un solo misero insignificante istante, mi fosse ancora concesso di vivere accanto a te quell’esistenza che insieme avevamo sognato; se mi fosse concesso di stringere tra le braccia il frutto della nostra unione, vedere in lui le nostre essenze sommate e amarlo di quello stesso amore con il quale tu donasti a me nuova vita.
Nulla, invece, mi rimane. Nulla se non i ricordi nei quali tu, amore mio, non invecchierai mai, nei quali tu resterai per sempre come un fermo immagine di giovinezza e vitalità mai spente, nei quali tu continuerai a vivere anche quando la mia memoria inizierà a farsi beffa di me e cercherà di allontanare la tua figura.
Lascio che le mie gambe si pieghino fino a toccare la neve che ricopre la terra fredda sotto la quale riposa disteso il tuo corpo. Rimango, in ginocchio, assorta nel silenzio assordante che avvolge la placida tranquillità di questo luogo. Capisco che anche questa volta nessuno ascolterà la mia disperazione, nessuno verrà a prenderti per mano e ti ricondurrà a me.
Lascio che le lacrime scendano a rigarmi il volto e mi distendo su quel bianco manto cosicché possa udire ancora una volta il tuo respiro, il battito del tuo cuore in un ultimo disperato tentativo di aggrapparsi alla vita.
Lascio che il freddo penetri nelle mie ossa e giù, più in fondo, fino a diventare parte di me; mi abbandono ad esso con completa fiducia nell’ultima disperata speranza di poter, così, ricongiungermi a te.

Il buio.
Oscuro sipario che cala sul passato dei miei giorni e avvolge sotto di sé tutto ciò che è stato, tutto quello che poteva essere e non sarà. Mai.
Spilli appuntiti penetrano nella mia carne, dalle dita dei piedi e più su, fino a giungere in ogni parte nascosta del mio corpo.
Perché sento tanto freddo? Perché il calore mi ha privato della sua protezione?
Cosa sono io senza il sangue che mi scorre dentro? Solo un’opaca immagine dell’uomo che fui un tempo, dell’uomo che sarei potuto diventare se il fato non avesse giocato con la mia sorte e mi avesse concesso di essere, ancora.
Destra. Sinistra.
Passi. Sono passi quelli che odo?
Destra. Sinistra.
C’è qualcuno lì fuori? Potete sentirmi così come io sento voi?
Destra. Sinistra.
Poi più nulla.
Il rumore è cessato, ma c’è una presenza, posso avvertirla, proprio qui, sopra il mio corpo.
Calore che riprende ad abitare in me, alito di vita che ritorna a far visita alle mie membra, cuore che palpita in petto una volta in più.
Sei tu, amore.
Ti riconoscerei anche se non ti avessi mai incontrata.
Ti riconoscerei anche se al mio sguardo non fosse stato mai concesso di posarsi sulla tua pelle candida non ancora violata.
Ti riconoscerei.
Perché sei quella parte profonda di me che troppo a lungo ho cercato di non ascoltare, perché sei il sentimento più bello che a un uomo sia mai stato dato di provare, perché sei l’unico motivo per il quale tornerei a vivere e a morire altre mille volte.
Mille volte, amore mio, rinascerei per poter incrociare una volta ancora il tuo sguardo e mille volte andrei volentieri incontro alla morte se questo significasse poterti tenere stretta sul mio petto per un altro infinito istante.
E rivivrei ogni attimo, ricadrei più e più volte negli stessi errori pur di giungere nuovamente laddove compresi che la mia esistenza non era ancora iniziata, laddove il vecchio morì per lasciare spazio a nuova vita, quella che nasceva insieme a te.
Cosa fai, amore? Ti inginocchi dinanzi a me come feci io quella prima notte di primavera: la tua mano, piccola tra le mie, tremava nell’attesa della mia proposta e i tuoi occhi cercavano i miei per parlarsi come tante volte avevano già fatto. Il luccichio del diamante si perdeva nella lucentezza del tuo sguardo: saresti stata mia, per sempre.
Quanto avevo temuto quella parola, sempre: eppure quando ti incontrai ebbi la certezza che sempre fosse troppo poco.
Ti distendi accanto a me, ora. Perché questa terra ci separa? Come vorrei allungare la mia mano a sfiorare il tuo corpo, sentire sotto le mie dita la morbidezza della tua pelle, ammirare le tue forme perfette.
Ti ricordi, amore, come fu bello perdersi l’una nelle braccia dell’altro, unire le nostre anime e i nostri corpi in un susseguirsi di baci e carezze? E tu che ti abbandonasti a me con piena fiducia. E fosti per me moglie, madre, amante, amica.
Cosa darei per ricongiungermi a te per un istante soltanto.
Amore… non ti sento più. Sei andata via?
No, sei ancora qui, ma la vita sta lasciando il tuo corpo, il calore sta cedendo il posto al freddo e presto il tuo cuore smetterà di resistere e cesserà di battere, per sempre. E con esso anch’io morirò un’altra volta e la speranza di vederti felice svanirà.
Ascoltami, amore: ascoltami. Altri occhi presto incontrerai e altre braccia ti stringeranno e tu devi permettere loro di farlo, devi permettere loro di scoprire quanto può essere meraviglioso vivere con te accanto.
Fallo per me, fallo per noi.
Alzati, amore: alzati.

La neve.
Ha smesso di cadere lenta e il sole, caldo, illumina adesso ogni cosa su cui i suoi raggi si adagiano, piano.
Posso udire attraverso la finestra le grida gioiose dei bambini che si rincorrono per i viali alberati, colorati dei dolci toni primaverili.
Vedo dal mio letto l’azzurro terso del cielo e sento crescere dentro una calma tranquillità.
Mi volto verso la porta e lo vedo apparire con un fagottino rosa tra le braccia. Lascio che me lo porga e lo stringo forte a me. Lui afferra il mio dito tra le sue gracili manine e lo tiene stretto di modo che io non possa lasciarlo.
Mi guarda. Sorride.
E io mi sento di nuovo viva, sento nuovamente scorrere la felicità nelle mie vene.
Mi sono alzata, amore.
L’ho fatto per te, per quell’amore che ci aveva uniti e che aveva riempito la mia esistenza della sua presenza.
L’ho fatto in nome del passato che ci aveva visti giovani e del futuro che non poté mai godere della nostra unione.
L’ho fatto perché ho sentito la tua voce che mi implorava di dare ancora una possibilità alla sorte che era stata così ingrata con noi.
Nuovi occhi sono giunti a parlare con i miei, nuove braccia mi hanno stretta tra le loro, nuovo calore si è fuso al mio e nuova vita è nata dal dolore passato.
Guardo quegli occhi, intreccio le mie mani alle sue.
E non ho più paura.
Dentro c’è ancora il sole.

@rlphotoandmore

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Raffaella Lazzarato
Made in Taranto. Based in Milano. Sempre alla ricerca di qualcosa che mi faccia battere il cuore più forte del minuto prima. Mi accontento raramente. Scrivo per dar voce alla voce che trattengo. Scatto per imprimere nella memoria emozioni, scorci, sguardi e pensieri.