Il primo taglio è il più profondo – Libere Riflessioni

Chi lavora nel campo, sa che i non esperti spesso utilizzano il termine “cancro” inappropriatamente.
Spesso, al momento della diagnosi o della notizia di avere un tumore, si pensa che le parole pronunciate dal medico equivalgano a dire “Ha il cancro”.
Ma, clinicamente parlando, i tumori possono essere di due tipi: benigni o maligni. E solo in quest’ultimo caso, assumono la denominazione tanto odiata e tanto temuta: cancro. 
Per arrivare a questa diagnosi servono analisi, indagini strumentali, biopsie. Tanti mezzi per poter capire l’entità del tumore, la classificazione, la presenza o meno di metastasi, la grandezza e tanti altri parametri utili al fine di denominarne la benignità o la malignità.
Ma il processo per arrivare al referto finale può richiedere tempo. E il punto di inizio, dove tutto comincia, nella maggior parte dei casi è il paziente.
Ognuno di noi riconosce, in un modo o nell’altro, quando il proprio organismo funziona regolarmente. Quando si trova in condizioni fisiologiche.
Ad un certo punto, c’è qualcosa che non va.
Uno strano mal di testa, una sensazione di malessere, un’irregolarità intestinale o un dolore atipico. Un sintomo anormale, che funge da trigger, ovvero da fattore scatenante, per prendere un primo appuntamento con il Medico di Medicina Generale.
Da questo momento, iniziano le analisi.
Il paziente non si darà mai pace, perché sa che c’è qualcosa che non va. Volente o nolente, è consapevole che ci potrebbe essere un esito che, negativo o positivo, si riveli alterato.
E infine, anche se la fine non è, la diagnosi.
E dopo tutti questi numerosi step, se ne aggiungono altri, per decidere quale sia la tipologia del tumore, per attuare le scelte terapeutiche più adeguate e compatibili con età, sesso, fragilità del paziente e aggressività del tumore, per avere un supporto clinico, psicologico, emotivo…
Di certo, è il tumore maligno, il cancro propriamente detto, quello che preoccupa di più la popolazione.
Il cancro si può sconfiggere, in alcuni casi, in altri no. E in altri ancora, è una battaglia persa in partenza.
Questa malattia non è altro che un gruppo di cellule che è sempre stato nell’organismo ma che, ad un certo punto, ha cominciato a non funzionare più come doveva e che quindi comincia ad insediarsi nel corpo umano, alterandolo, modificandolo, diventando una parte di esso.
Chemioterapia, radioterapia, follow up, farmaci e tanti stressanti tentativi di cura che possono portare fino ad un ultimo step, a volte quello più spaventoso: la chirurgia.
Esplorativa o risolutiva, la chirurgia mette sempre paura. Sia che l’intervento sia “semplice”, sia che si tratti di uno più “complesso”, ma in tutti i casi, viene anche vista dal paziente come la soluzione finale, il punto di arrivo, quel momento in cui tutto finisce e la strada sarà solo in discesa.
Il problema è che la strada continua, dopo l’intervento, e spesso è tutt’altro che facile. Perché dopo quel taglio, quell’incisione, quelle ore stese su un letto in sala operatoria, il tumore viene asportato del tutto, o magari no.
Nel primo caso, il corpo dovrà combattere contro il dolore, contro gli effetti avversi e contro “l’abitudine” di custodire il cancro. Dovrà andare avanti senza una parte di sé che, seppur maligna, seppur tossica, era diventata parte di lui.
Nel caso della seconda opzione, forse una parte è rimasta, e rimarrà ancora.
E forse, nonostante tutti i tentativi, non si riuscirà a rimuovere definitivamente.
La traccia che rimane, in un caso o nell’altro, sarà per sempre indelebile.

@lucabellomo

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Luca Bellomo