Una medaglia e due facce. Semplice se si parla di monete ma terribilmente arduo quando si tratta di persone. Siamo esseri multidimensionali e dentro di noi coesistono due sfere molto diverse. Una ha a che fare con il fisico e corrisponde a quella parte che tutti vedono e che, in qualche modo, ci fa da scudo. L’altra è la cosiddetta sfera “chimica-emozionale” ed ha a che fare con qualcosa di meno tangibile ma non per questo meno potente.
Esiste un angolo di mondo, del nostro mondo interiore, capace di contenere sbavature che ci definiscono. Alcuni li chiamano segni, altri tracce e altri ancora impronte.
Sono tutte parole che solitamente ci piacciono: perché raccontano il nostro passaggio, le nostre traversate e narrano il nostro esistere. E se invece provassimo a dire -cicatrice-?
Forse ci piace meno come termine ma è quello più giusto.
Se un bambino cade e si sbuccia un ginocchio corriamo a medicarlo: mettiamo un cerotto e confidiamo che il tempo farà il resto del lavoro.
Perché? Cosa ci sarebbe di male se su quel ginocchio restasse la traccia di una caduta?
Tendiamo a rimuovere, coprire, nascondere e negare la memoria dolorosa di quello che è stato perdendo di vista la parte più importante e sincera di noi stessi.
Quando ci feriamo è come se si creasse un varco, una falla che cerchiamo a tutti i costi di cementare.
Non saremo più gli stessi dopo quel rattoppo, e questo ci crea spesso disagio e sconforto. Un vestito rammendato non sarà mai come una stoffa originale ma c’è della rara bellezza nel taglio e cucito. Il filo entra ed esce dai tessuti: punti di sutura ai quali dobbiamo legarci.
“Sentire” le emozioni è un esercizio complesso e fuori moda.
Nella nostra quotidianità corre tutto troppo velocemente: dobbiamo arrivare puntuali a lavoro, pagare le bollette e rispettare le scadenze. Nessuno ha più tempo per armonizzare il pensiero.
Non c’è spazio per la gestione delle nostre stanze emotive: non abbiamo la minima idea di come utilizzare, in modo funzionale, le nostre emozioni.
A scuola ci insegnano l’alfabeto: tutte quelle lettere messe insieme nel modo giusto originano frasi di senso compiuto. Io aggiungerei una sfumatura alla nostra grammatica: l’alfabetizzazione emotiva.
Carl Gustav Jung disse che “non c’è presa di coscienza senza dolore” ed è esattamente questo il ruolo delle nostre cicatrici. Ci ricordano ciò che siamo stati, quello che abbiamo subito, quanto è stato difficile e che possiamo farcela. Mi tengo stretta quella sofferenza smagliata e stratificata.
La attraverso e mi sembra quasi di udire la sua voce: “tu sei anche questo”.
LA SCONOSCIUTA